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TitreIl Figino
AuteursComanini, Gregorio
Date de rédaction
Date de publication originale1591
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Date de reprint

, p. 280

Annitrirono i cavalli al cavallo effigiato da Apelle ; gli ucelli volarono a beccar l’uve dipinte da Zeusi ; un pittor finse un uom sbadigliante, dinanzi al quale tante volte sbadigliavano i riguardatori, quante volte lo riguardavano. Che vi pare di queste immagini ? Non bisogna egli confessare che fossero di tutta perfezzione ?

Dans :Apelle, le Cheval(Lien)

, p. 358

[[8:voir aussi Aristide de Thèbes]] 

MARTINENGO — Vorrei dir quanto, nell’ir imitando i costumi di quei che temono, abbiate avanzato la moltitudine de’pittori nella faccia del Salvatore agonizzante, la cui copia ho veduto in Venezia, nella quale veggonsi tremar le labbra e gonfiarsi, titraersi le narici, aprirsi la bocca, languire il lume degli occhi, scolorarsi e palpitare propriamente le carni, arrabuffarsi i capelli, rincresparsi tutta la fronte, rimaner chioso il fiato nel petto, per maniera che chi la mira sente corrersi il freddi per l’ossa et agghiacciarsi dentro le vene il sangue.
FIGINO — Voi, dicendo di non voler dire per non offendermi, pur dite e mi fate ofesa. Che direste poi dell’imagini de’moribondi fatte da Apelle, se le vedeste ? nelle quali nell’esalar d’anima era così del naturale imitato, che pareva che l’ultimo soffio s’udisse uscir tra le labbra. Et Aristide fu miracoloso nell’esprimere i costumi d’uno ammalato : come il languire, lo smaniare, il contorcersi, il patir nausea, lo svenire e simili atti.

Dans :Apelle et les mourants(Lien)

, p. 377

Poiché digià v’ho provato che’l pittore è perfetto imitator di costumi e che non v’ha passion d’animo che’l pennello non l’esprima così vivamente, sì come la penna. Scrive Plinio che tra le tavole d’Aristide fu principal quella, in cui, nella presura d’un certo castello, vedevasi un fanciullino appiccarsi alla mammella della madre, che moriva d’una ferita ; e parea che quella donna temesse che’l bambino non succiasse il sangue dal morto latte. E queste son le parole : huius pictura, oppido capto, ad matris morientis ex vulnere mammam adrepens infans. Intellegiturque sentire mater et timere, ne ex mortuo lacte sanguinem infans lambat.

Dans :Aristide de Thèbes : la mère mourante, le malade(Lien)

, p. 358

MARTINENGO — Vorrei dire quanto, nell’ir imitando i costumi di quei che temono, abbiate avanzato la moltitudine de’ pittori nella faccia del Salvatore agonizzante, la cui copia ho veduto in Venezia, nella quale veggonsi tremar le labbra e gonfiarsi, ritraersi le narici, aprirsi la bocca, languire il lume degli occhi, scolorarsi e palpitare propriamente le carni, arrabuffarsi i capelli, rincresparsi tutta la fronte, rimaner chiuso il fiato nel petto, per maniera che chi la mira sente corrersi il freddo per l’ossa et agghiacciarsi dentro le vene il sangue.

FIGINO — Voi, dicendo di non voler dire per non offendermi, pur dite e mi fate offesa. Che direste poi dell’imagini de’moribondi fatte da Apelle, se le vedeste ? Nelle quali quell’esalar d’anima era così del naturale imitato, che pareva che l’ultimo soffio s’udisse uscir tra le labbra. Et Aristide fu miracoloso nell’esprimere i costumi d’uno ammalato : come il languire, lo smaniare, il contorcersi, il patir nausea, lo svenire e simili atti.

Dans :Aristide de Thèbes : la mère mourante, le malade(Lien)

, p. 258

GUA. Questo madrigale imita ben da dovero la pittura dell’Arcimboldo.
FI. Volgete il foglio e troverete il poema sopra il Vertunno.
GUA.Eccolo.
Qual tu sii, che me guardi
Strana edifforme imago,
E ‘l riso hai su le labbra,
Che lampeggia per gli occhi
E tutto ‘l volto imprime
Di novella allegrezza,
Al veder novo monstro,
Che Vertunno chiamaro
Ne’ lor carmi gli antichi
Dotti figli d’Apollo
Se’n mirar non t’ammiri
Del brutto, ond’io son bello,
Ben non sai qual brutezza
Avanzi ogni bellezza.

Dans :Cadavres et bêtes sauvages, ou le plaisir de la représentation(Lien)

, p. 271-272

GUARINO. Segue ora che veggiamo, se\'l fine di quest\'arti imitanti è\'l diletto o pur l\'utile. E se proveremo che sia il diletto, proveremo senza alcun dubbio che questo è il fine della pittura, si come d’arte imitante. Ora, chi non sa gli uomini dilettarsi naturalmente dell’imitazioni e prenderne molto piacere ? Lo conferma il principe de’ Peripatetici in quel capitolo della Poetica, dove tratta dell’origine della poesia e dalle sue specie, e dice che l’imitare è stato dalla natura inestato negli uomini infin da fanciulli, e che noi tutti siam differenti dagli altri animali ancora in questo, che abbiamo attitudine all’imitazione, e che imitando facciamo acquisto delle prime discipline, e che ciascuno di noi gode delle imitazioni  e se ne rallegra. E che questa sia la verità (soggiunge egli), prendasene argomento dalla pittura : poiché noi volontieri miriamo l’imagini ben dipinte di spaventosissime fiere, e di mostri orrendissimi, e di cadaveri, quando non senza molestia, anzi con molto spiacimento guardiamo le vere fiere, i veri mostri e i veri cadaveri, come cose comunemente da noi tutti abhorrite. Mi soviene d’aver veduto a Mantova in una camera del palazzo Ducale del Tè, dipinti da Giulio Romano, i Giganti folminanti in Flegra, pesti et infranti dalle ruine de’ sassi e de’ monti, in forme e in atti così strani et orribili, che s’altri fosse riguardatore d’un simile spettacolo che vero fosse, inorridirebbe sicuramente e gran noia sentirebbe di questo spettacolo. Nondimeno, perché quella è imitazione e pittura, non è uomo che non abbia caro di veder quest’opera, e che sommamente non se ne compiaccia, sì come ne può far fede la frequenza de’ forastieri che là concorrono. Così ancora, grato spettacolo non sarebbe stato ad occhio pietoso mirare l’infelicissima Ifigenia presso all’altare per dover essere ivi sacrificata dal sacerdote, il quale vicino le stava col ferro ignudo nella destra, e d’intorno la turba mestissima de’ parenti ; e l’istesso Agamemnone, padre della fanciulla, che afflitto attendeva il duro avvenimento della figliuola. Tuttavia la tavola, sopra la quale Timante effigiò questa istoria et in cui, difidatosi di poter a pieno esprimere l’estremo dolor d’Agamemnone, dipinse l’affannato padre con un velo al volto, che gliel celava, era mirata con miraviglioso diletto e pregiata molto. Quello che io dico dell’imitazione fatta con la varietà de’ colori, dico ancora di quella che con le parole si fa ; percioché a chi sarebbe giamai dato il cuore di contemplare senza lacrime il povero Giob, mentre ricercava i figliuoli e le figliuole giacenti per terra essangui et involti fra le pietre e fra le travi che loro gittòaddo sso il vento, quando crollò et ispianò quella casa, dentro la quale sedevano a mensa ecelebravano un commune pranzo? E pure, chiunque legge la descrizzione di questo spettacolo fatta da S. Giovanni Chrisostomo nella prima omilia della pazienza di Giob, dilettasi e ammira l’imitazione e l’imagine che’ l buon santo di quella ha formato. «Andò - dice egli - questo generoso combattitore a quella funebre casa, la quale a’ suoi miseri figliuoli fu in una medesima ora albergo e sepoltura, convito e tomba, festa e pianto. Cavò d’intorno e cercò le membra de’ suoi figliuoli, e ritrovò vino e sangue, pane e mano e polvere. Ora traeva fuori una mano, ora un piede; quando un capo con certa polverosa materia, la quale tirava insieme con le pietre e con le travi; e quando una parte del ventre, quando parte degli intestini: leviscere confuse con terra et ismalto. Sedette quel lottatore, che era più alto del cielo, raccogliendole sparse membra de’ cari figliuoli. Sedette giungendo le membra alle membra, accommodando la mano al braccio, il capo agli omeri, et il ginocchio alle coscie. Sedette separando membro da membro, e guardandosi di non congiungere le feminili alle maschili membra». Così dice egli. Ma fra tutte le più strane et orrende viste, delle quali sogliono gli uomini spaventarsi maggiormente e raccapricciarsene, niuna ve n’ha, che possa agguagliarsi a quella degli spirti demoniaci, quando appariscono sotto mille brutte forme a’ nostri occhi. Nondimeno l’idolo che’l Vida fa de’ demonii nel primo della Cristeida pur piace e diletta. Digrazia, non vi rincresca che io o vi riduca a memoria:

Ecce igitur dedit ingens buccina signum.
Qua subito intonuit caecis domus alta cavernis
Undique opaca, ingens, antro, intonuere profunda,
Atque procul gravido tremefacta est corpore tellus.
Continuo ruit ad portas gens omnis, et adsunt
Lucifugi caetus, varia atque bicorpora monstra,
Pube tenus hominum facies, veruni hispida in anguem
Desinitingenti sinuata volumine cauda. Gorgonas hi,
Sphingasque obsceno corpore reddunt,
Centaurosque, Hydrasque illi, ignivomasque Chimaeras;
Centum alii Scyllas, ac foedificas Harpyias,
Et quae multa homines simulacra horrentia fingunt.
At centumgeminus fiammanti vertice supra est
Arbiter ipse Erebi, centenaque brachia iactat
Centimanus, totidetnque eructat faucibus aestus.
Omnes luctificum fumumque atrosque procaci
Ore oculisque ignes, et vastis naribus efflant.
Omnibus intorti pendent pro crinibus angues
Nexantes nodis sese, ac per colla plicantes.
In manibus rutilaeque faces, uncique tridentes,
Quis sontes animas subigunt, atque ignibus urgent.
La qual descrizzione fu poi trasferita overo imitata dal Tasso nel quarto della sua Gierusalemme liberata, quando disse:

Tosto gli Dei d’Abisso in varie torme Concorron d’ogn’ intorno a l’alte porte.
Oh come strane, oh come orribil forme!
Quant’è negli occhi lor terrore e morte!
Stampano alcuni il suol di ferine orme,
E ‘n fronte umana han chiome d’angui attorte;
E lor s’aggira dietro immensa coda,
Che quasi sferza si ripiega e snoda.
Qui mille immonde Arpie vedresti e mille
Centauri e Sfingi e pallide Gorgoni;
Molte e molte latrar voraci Scille,
E fischiar Idre e sibilar Pitoni,
E vomitar Chimere atre faville,
E Polifemi orrendi e Gerìoni;
E ‘n novi mostri, e non più intesi o visti,
Diversi aspetti in un confusi e misti.
D’essi parte a sinistra e parte a destra
A seder vanno al crudo re davante.
Siede Pluton nel mezzo, e con la destra
Sostien lo scettro ruvido e pesante.
Né tanto scoglio in mar, né rupe alpestra,
Né pur Calpe s’inalza o ‘l magno Atlante,
Ch’anzi lui non paresse un picciol colle,
Si la gran fronte e le gran corna estolle.
Orrida maestà nel fiero aspetto
Terrore accresce, e più superbo il rende.
Rosseggian gli occhi, e di veneno infetto
Come infausta cometa il guardo splende.
Gli involve il mento e su l’irsuto petto
Ispida e folta le gran barba scende;
E ‘n guisa di voragine profonda
S’apre la bocca d’atro sangue immonda.

Ora, chi non vorrà confessare di sentir diletto nell’udire queste poetiche imitazioni delle mentite forme de’ diavoli, quando tuttavia spaventerebbesi di così brutti spettacoli, se visibilmente gli apparissero davanti ?

Dans :Cadavres et bêtes sauvages, ou le plaisir de la représentation(Lien)

, p. 347

Però quando veda che gli accidenti di quella istoria che prende a formare si confanno in modo con quelli d’un altra, che possono partorir dubbio del loro significato, ingegnisi di trovar invenzione che distingua quell’istoria da un’altra simile : sì come fece Nealce, il quale, volendo dipingere una battaglia navale fatta dagli Egizzii contro quei di Persia nel Nilo, il qual fiume ha l’acque simili di colore a quelle del mare, dubitando che altri non giudicasse quella guerra fatta in pelago, finse in su la sponda del fiume un somiero che bevea et un crocodilo che stava agli aguati per assalirlo. Con la quale invenzione tolse il dubbio, che in altrui poteva cadere per la somiglianza del colore dell’onde marine con quelle del Nilo, se quell’armata fosse finta in detto fiume overo in mare ; percioché quel crocodilo dimostrava quello essere il fiume Nilo, il quale suol essere abondantissimo di tai serpenti. E quantunque l’Incendio di Borgo, dipinto, come v’ho detto, in Roma da Raffaello, abbia alcuni accidenti da me accenativi, co’ quali par quasi che rissomigli quello di Troia, nondimeno esso fa molti altri vien fatto conoscere per diversissimo e per quello istesso che è.

Dans :Néalcès et le crocodile(Lien)

, p. 268

Conosco esser vero che non meno al buon pittore che al buon poeta fa bisogno d’una certa universale letteratura, con cui possa a guisa d’un altro Proteo trasformarsi in diverse forme e vestirsi degli abiti altrui, quanto ad imitator conviene.

Dans :Polos, si vis me flere(Lien)

, p. 293

[[8: voir aussi Zeuxis et Polygnote]] E’l medesimo principe de’ peripatetici, quando nell’ottavo della Politica tratta della musica e de’suoi effetti, et incidentemente parla delle pitture, perché così dice, che i fanciulli non deono riguardare l’imagini di Pausone, ma sì bene quelle di Polignoto, overo d’altro pittore o statuario che sia morale, se non perché quel Pausone non riguardava il giovevole nel dipingere le sue figure, e Polignoto sì, come quegli che rappresentava bontà di costumi e perciò tutte l’imagini indirizzava al proprio fine dell’arte ?

Dans :Polygnote, Dionysos et Pauson : portraits pires, semblables, meilleurs(Lien)

, p. 271

Così ancora, grato spettacolo non sarebbe stato ad occhio pietoso mirare l’infelicissima Ifigenia presso all’altare per dover essere ivi sacrificata dal sacerdote, il quale vicino le stava col ferro ignudo nella destra, e d’intorno la turba mestissima de’ parenti ; e l’istesso Agamennone, padre della fanciulla, che afflitto attendeva il duro avenimento della figliuola. Tuttavia la tavola, sopra la quale Timante effigiò questa istoria et in cui, diffidatosi di poter a pieno esprimere l’estremo dolor d’Agamennone, dipinse l’affannato padre con un velo al volto, che gliel celava, era mirata con maraviglioso diletto da ciascheduno e pregiata molto.

Dans :Timanthe, Le Sacrifice d’Iphigénie et Le Cyclope (Lien)

, p. 260

Or tu che pensi ch’abbia

L’ingegnoso Arcimboldo

Nel qui ritrarmi fatto

Col suo pennel, ch’avanza

Pur quel di Zeusi, o quello

Di chi fe’ l’inganno

Del sottil vel dipinto

Nel certame di gloria ?

Dans :Zeuxis et Parrhasios : les raisins et le rideau(Lien)

, p. 293

E’l medesimo principe de’ peripatetici, quando nell’ottavo della Politica tratta della musica e de’suoi effetti, et incidentemente parla delle pitture, perché così dice, che i fanciulli non deono riguardare l’imagini di Pausone, ma sì bene quelle di Polignoto, overo d’altro pittore o statuario che sia morale, se non perché quel Pausone non riguardava il giovevole nel dipingere le sue figure, e Polignoto sì, come quegli che rappresentava bontà di costumi e perciò tutte l’imagini indirizzava al proprio fine dell’arte ?

Dans :Zeuxis et Polygnote : action et caractères(Lien)

, p. 294-295

Non vedete voi come ad ambedue quest’arti[[5:pittura e scultura.]] il Morale assegna i termini, e dà loro le leggi e i precetti ? Non vuole Aristotele che l’imagini fatte da Pausone sieno (come poco fa detto abbiamo) guardate da’ giovani, come quelle che non facevano imitazione di buon costumi.

Dans :Zeuxis et Polygnote : action et caractères(Lien)